Il Cantico dei Cantici: la lezione di un eros “al femminile”

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Raccogliendo una provocazione di papa Francesco, secondo il quale, «il giorno di San Valentino, in alcuni Paesi è sfruttato meglio dai commercianti che non dalla creatività dei pastori» (Amoris laetitia, n. 208), nella ricorrenza del Patrono degli innamorati, diamo avvio a una serie di 4 post dedicati al tema dell’amore, ringraziando Roberto Massaro per la disponibilità a collaborare. Egli è professore di teologia morale e bioetica presso la Facoltà Teologica Pugliese, e amico dell’Accademia Alfonsiana dove ha conseguito il dottorato con una tesi sull’etica della cura (Collana Tesi Alfonsiane). Sul tema qui affrontato, ha pubblicato Si può vivere senza eros? La dimensione erotica dell’agire cristiano (EMP 2021).

Per lungo tempo l’etica cristiana è stata accusata (e forse lo è ancora) di essere nemica dell’eros e, in qualche modo, “sessuofobica”. Troppo occupata a stabilire i rigidi confini di esercizio della sessualità e poco a sostenere il linguaggio dell’amore. In questi brevi post, proveremo a rintracciare nella sacra Scrittura alcuni passi che possano aiutarci a rileggere l’eros biblico, nel tentativo di liberare l’etica sessuale cattolica dalle rigide catene costruite lungo i secoli, ma che, in realtà, poco hanno a che vedere con il messaggio profondamente umanizzante della Rivelazione[1].

Per perseguire il nostro scopo, non possiamo non iniziare dal testo più erotico della Bibbia, il Cantico dei Cantici. Di questo poema, Rabbì Aqiba, attorno al 100 d.C., così scriveva: «Il mondo intero non vale il giorno in cui è stato scritto il Cantico dei Cantici. Tutte le Scritture sono sante: ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi». Questa celebre citazione ben esprime quanto questo libro della Scrittura abbia catturato il cuore e la mente di tanti studiosi e mistici, sia ebrei che cristiani. Così, nel corso dei secoli, gli studi esegetici hanno cercato di giustificare la presenza del Cantico tra i testi sacri, sebbene nei suoi versi non appaia mai – se non una sola volta e anche en passant (cf. Ct 8,6) – il nome di Dio.

Una prima rivoluzione sessuale

Potremmo quasi osare e affermare che Israele, in generale, e il Cantico, in particolare, operano una prima “rivoluzione sessuale”. Sacralizzando la sessualità, come i popoli vicini erano soliti fare, se ne disconosceva la dimensione personale (nell’antichità, poi, l’attenzione era posta sulla riproduzione, più che sull’amore tra i due partners). Il poema erotico che la tradizione ha attribuito al grande re Salomone, invece, riporta al centro l’eros nella sua totalità di significati: amore, desiderio, passione, impulso sessuale.

Punto focale di questa “rivoluzione” non può che essere il ruolo assolutamente straordinario che l’autore del Cantico assegna alla donna. Sappiamo bene, infatti, che la cultura giudaica non attribuiva alla figura femminile un posto chiave nella società: la famiglia aveva un carattere eminentemente patriarcale e le affermazioni misogine erano molto comuni, soprattutto nella letteratura extra biblica. Così sentenzia, ad esempio, il Talmud: «Il mondo non può esistere senza maschi e senza femmine, ma felice colui i cui figli sono maschi e guai a colui i cui figli sono femmine»; e ancora: «Il padre non è obbligato a nutrire sua figlia» (una figlia si poteva anche far morire!).

Non sono poche, però, le donne che hanno un ruolo da protagonista nell’Antico Testamento: Rebecca, che aiutò il suo figlio prediletto Giacobbe a usurpare a Esaù la primogenitura (Gen 27,5-17); Maria, sorella di Mosè e di Aronne (Es 15,20-21); Deborah, annoverata nel numero dei giudici di Israele (Gdc 4,4); Betsabea, fautrice della salita al trono di suo figlio Salomone (1Re 1); la profetessa Culda (2Re 22,14); Rut e le eroine nazionali Giuditta ed Ester, protagoniste degli omonimi libri.

Ci sembra giusto, pertanto, affermare che, nell’antica alleanza, accanto all’uomo, principale interlocutore con Dio, alla donna è riservata una posizione cruciale nel complesso del racconto biblico. Troviamo regine, schiave, cortigiane, madri, prostitute, vergini, negromanti, le quali, pur nel loro marginale rapporto con la divinità, hanno un ruolo così importante nel susseguirsi degli avvenimenti da essere determinanti per la stessa storia della salvezza.

Il volto “femminile” dell’amore

Se la donna, in quanto tale, ha già un ruolo così importante, anche se non da protagonista, quando si tratta di descrivere il rapporto amoroso ella sale sul gradino più alto e, come nel caso del Cantico, si manifesta come la vera interprete della passionalità erotica. Già nel prologo si leggono i pensieri di una giovane che sta per entrare nel talamo e si evince tutto il desiderio di poter provare l’ebbrezza del piacere fisico:

Trascinami con te, corriamo!

M’introduca il re nelle sue stanze:

gioiremo e ci rallegreremo di te,

ricorderemo il tuo amore più del vino.

A ragione di te ci si innamora! (Ct 1,4).       

Pochi versetti più avanti, la descrizione dell’incontro tra i due partners da parte della donna è altamente esplicita, pur nel consueto utilizzo di metafore:

Mentre il re è sul suo divano,

il mio nardo effonde il suo profumo.

L’amato mio è per me un sacchetto di mirra,

passa la notte tra i miei seni.

L’amato mio è per me un grappolo di Cipro nelle vigne di Engàddi (Ct 1,12-14).

L’uso di termini come nardo, mirra, grappoli, vigne fa intendere che nella bellezza dell’amplesso sono trascinati tutti i sensi. La coppia è totalmente coinvolta e nell’incontro sessuale – che si realizzerà solo nella lirica finale del Cantico – l’amore trova la sua piena realizzazione. Esso è un possesso totale e reciproco, un’unione inebriante che stordisce entrambi gli amanti.

Ci verrebbe quasi da dire che, secondo l’autore del Cantico, eros sia appannaggio esclusivo dell’universo femminile. Solo le donne, infatti, riuscirebbero a manifestare al meglio la passionalità, il desiderio, l’impulso sessuale. Finiremmo, però, per cadere nell’atavica trappola che attribuisce al maschile la razionalità e al femminile le emozioni.

Sarebbe, al contrario, auspicabile, sulla scorta delle indicazioni poetiche offerteci dal Cantico dei Cantici, rivalutare “il femminile” in senso junghiano, ossia quella dimensione di attenzione agli aspetti emotivi e sentimentali comune sia agli uomini che alle donne. Significherebbe, pertanto, riscoprire eros non solo come desiderio di unione sessuale, quanto, piuttosto, come ricerca dell’amato, apertura di sé verso l’altro, ricerca dell’amore unico e casto.

Un’etica dell’erotismo?

L’etica del Cantico si presenta, anzitutto, con un forte impulso di parità di genere. È la donna la protagonista indiscussa di questa storia d’amore. Essa non è relegata alle faccende domestiche. Non viene nemmeno condannata per aver espresso il suo desiderio, né per aver dato libertà di azione al suo erotismo. Il valore della sua parola non è per nulla inferiore a quello dell’uomo, anzi, sembra essere proprio il suo ardore femminile a guidare e plasmare tutta la storia dei due amanti.

In seconda istanza, l’autore del Cantico sembra disinteressarsi all’aspetto procreativo della relazione tra i due partners. La cosa desta non poca meraviglia vista l’intima e imprescindibile connessione che, nell’antichità, legava l’esercizio della sessualità alla generazione dei figli. La storia, al contrario, manifesta quel desiderio di unione e di comunione che, oggi, potrebbe davvero essere preso in considerazione come il fine primario dell’unione sessuale. Esso non dice soltanto appagamento del bisogno di unione fisica, ma anche e soprattutto volontà di trattare l’altro da pari e non come un oggetto. Infatti, pur nelle intricate maglie di una storia intrisa di passionalità, il desiderio sessuale non diventa mai pressione o imposizione.

Infine, l’eros narrato nel Cantico, proprio perché impegna l’uomo a uscire da sé, lo libera dalle strette dell’egoismo, promuovendo in lui un agire virtuoso. Non si scorge affatto, nella lirica, l’idea di un rapporto sessuale legato al soddisfacimento del piacere personale. Il fine non è godere, ma godere nell’essere fonte di piacere per il partner. È un desiderio maturo, altruista, saggio: solo la felicità dell’altro può rendermi felice. Non basta, pertanto, un’unione matrimoniale a rendere lecito un rapporto sessuale. Occorrerebbe, piuttosto, valutarne la liceità sulla base dell’effettiva compromissione per l’altro che l’amante porta con sé.

Roberto Massaro


[1] Un’analisi più approfondita si trova nel mio Si può vivere senza eros? La dimensione erotica dell’agire cristiano, Edizioni Messaggero, Padova 2021.

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