La sfida bioetica degli organoidi

Una delle innovazioni più promettenti nel campo della ricerca biomedica è costituita dai cosiddetti organoidi[1]. Un organoide è una struttura biologica tridimensionale derivata da cellule staminali pluripotenti o cellule differenziate che si auto-organizzano attraverso interazioni cellula-cellula e cellula-substrato/matrice per ricreare in vitro aspetti dell’architettura e della funzione di un determinato organo. Già dagli anni ’90 del secolo scorso era stata segnalata la possibilità di passare dalle classiche colture cellulari monostrato a strutture con architettura tridimensionale, ma lo sviluppo di questo campo di ricerca è diventato tumultuoso nell’ultimo decennio grazie ad un miglioramento nella nostra capacità di manipolare le staminali, ad una più profonda comprensione dei meccanismi di differenziazione cellulare, e all’introduzione di tecniche biomediche innovative, quali la stampa a 3 D. Le cellule di partenza possono essere cellule staminali derivanti dalla disgregazione di blastocisti (ESCs) oppure da staminali prelevate da un corpo adulto oppure da staminali pluripotenti indotte (iPSCs) secondo la metodica di riprogrammazione delle cellule somatiche inizialmente proposta da Takahashi e Yamanaka. Oltre alle staminali, è un dato acquisito che gli organoidi possono essere originati anche da cellule differenziate, come, per esempio i colangiociti, cellule delle vie biliari del fegato. Allo stato attuale delle ricerche gli organoidi si presentano come aggregati cellulari di pochi centimetri che non hanno la struttura complessa degli organi naturali, mancando fra l’altro di irrorazione sanguigna e di innervazione, ma le cui caratteristiche istologiche, anatomiche e funzionali sono analoghe a quelle degli organi corrispondenti. Attualmente ci sono organoidi di tipi diversi come i reni, l’intestino, il pancreas, il fegato, il cuore, l’ovaia, il testicolo, la retina e persino il cervello.

Le applicazioni degli organoidi sono molteplici.

Un’applicazione già entrata nell’uso si registra nel campo della ricerca farmacologica e oncologica: si possono, infatti, testare sull’organoide farmaci o chemioterapici limitando sia il ricorso a modelli animali, sia il ricorso a soggetti umani e, anche se l’ambiente di un organoide, non può essere paragonato a quello di un organismo vivente, tuttavia l’organoide è più vicino alla situazione dell’organismo vivente rispetto alle classiche colture cellulari bidimensionali. La preparazione di organoidi a partire da cellule di un certo paziente potrebbe favorire la personalizzazione di trattamenti e terapie che verrebbero provate su strutture riportabili al paziente stesso. Sono stati, infine, sviluppati organoidi per studiare particolari patologie umane e per provare su di essi terapie sperimentali.

Una seconda area di applicazione degli organoidi – ancora ai primi passi – è nell’ambito della medicina dei trapianti e, in generale, della medicina rigenerativa. Gli organoidi sono considerati una fonte di potenziali tessuti per il trapianto. Gli organoidi epatici, per esempio, potrebbero essere utilizzati per ripristinare la funzionalità epatica in pazienti con diagnosi di malattia epatica metabolica. Tenuto conto della lentezza con cui procede la ricerca sugli xenotrapianti e a fronte delle difficoltà derivanti dai trapianti da donatore cadaverico, sia per la scarsezza degli organi disponibili, sia per i dibattiti legati all’accertamento della morte, ultimamente in ragione dei troppo brevi tempi di asistolia previsti in alcuni Paesi, gli organoidi promettono di essere un’alternativa valida e relativamente agevole. Sempre restando nel campo del futuribile, la combinazione della tecnica degli organoidi con tecnologie di terapia genetica potrebbe arrivare a produrre, a partire da organi di pazienti portatori di difetti genetici e curati con opportuno editing, organoidi sani idonei al trapianto.

Si prevede che gli organoidi rivoluzioneranno la ricerca biomedica e la terapia, ma già si profilano diverse problematiche etiche[2].

Ci si interroga, prima di tutto, su come regolare il rapporto con i donatori di cellule che partecipano alla ricerca sugli organoidi in relazione a questioni riguardanti la proprietà, la brevettabilità, la commercializzazione, la conservazione di organoidi presso biobanche. Alcuni propongono di ricorrere alla pratica della anonimizzazione: in base a questa prassi quando un tessuto è completamente deidentificato si pensa di aver garantito a sufficienza la privacy dei donatori. Questa prassi, però, può rivelarsi un ostacolo a uno sfruttamento adeguato delle potenzialità degli organoidi che devono poter essere ricollegati con i dati personali e biologici dei donatori, soprattutto quando i tessuti dei donatori presentano mutazioni e/o malattie rare, come la fibrosi cistica. L’altro modello, quello del consenso informato, presenta anch’esso difficoltà perché non è facile prevedere i possibili usi futuri dei campioni donati in rapporto a possibilità tecnologiche innovative, come la clonazione, il trapianto e il potenziamento (enhancement) umano e le ricadute commerciali degli organoidi potrebbero non essere gradite ai donatori che potrebbero essere disposti ad accettare il loro uso solo a fini di ricerca e di miglioramento della salute propria ed altrui. Particolari problemi suscitano – ma li approfondiremo in un intervento successivo – gli studi su organoidi di tipo gonadico e cerebrale per lo stretto rapporto che mantengono con la personalità dei donatori e per le possibili commistioni con organi animali.

Una problematica etica certamente non nuova riguarda la produzione di cellule staminali pluripotenti da blastocisti embrionarie. La morale personalista è persuasa che ogni esistenza umana, a partire dal suo concepimento, meriti il rispetto incondizionato che si deve alla persona e, per questo, non accetta che un embrione umano, ancorché precoce, possa essere distrutto per qualsiasi finalità. D’altra parte le staminali adatte per la produzione di organoidi possono essere ottenute oggi per vie diverse e del tutto lecite.

Un altro problema è quello dei gastruloidi. Si tratta di organoidi particolari che non imitano i singoli organi, ma i processi di sviluppo dell’embrione. I gastruloidi sono simili agli embrioni umani perché contengono cellule di ciascuno dei tre strati germinali, ricapitolando aspetti dell’embriogenesi in vitro e, in particolare, il processo di gastrulazione, un processo che fa passare un embrione da uno stato unidimensionale ad una struttura multidimensionale e pluristratificata. La ricerca sui gastruloidi potrebbe fornire informazioni preziose sullo sviluppo iniziale dell’embrione umano e sui disturbi associati all’inizio della gravidanza e all’aborto spontaneo nel primo trimestre. Ci sono, però, preoccupazioni etiche riguardo allo status morale dei gastruloidi e alla fase di sviluppo cui i gastruloidi possono essere lasciati maturare[3]. Secondo alcuni, se disattiviamo i geni necessari per far progredire i gastruloidi verso stadi di sviluppo più avanzati, questi gastruloidi difettivi non potrebbero essere qualificati come embrioni, ma sarebbero semplici artefatti biologici. In mancanza di una qualificazione etica condivisa dell’embrione umano, soprattutto di quello in fase precoce, diventa arduo rispondere alla domanda se i gastruloidi debbano essere classificati o no come embrioni. Una questione analoga è stata affrontata in Dignitas personae 30 a proposito delle tecniche ANT e OAR nonché dei cosiddetti partenoti, embrioni frutto di partenogenesi.

Nelle discussioni sul grado di maturazione da permettere di raggiungere ai gastruloidi umani, si fa spesso riferimento alla regola dei 14 giorni che, approvata dal comitato Warnock in Gran Bretagna nel 1982, è oggi largamente accettata a livello internazionale. Essendo necessari 14 giorni dalla fecondazione perché appaia la stria primitiva, evento di drammatica rilevanza nello sviluppo dell’embrione, la coltivazione in vitro di embrioni umani è consentita solo fino quella data. Non possiamo qui approfondire gli aspetti biologici ed ontologici della questione, ma se, sulla base delle somiglianze tra gastruloidi ed embrioni umani, alcuni ricercatori tendono ad applicare la regola dei 14 giorni alla coltura dei gastruloidi umani in vitro, per lo stesso motivo, proprio per il dubbio sulla loro precisa natura, noi riteniamo che i gastruloidi umani non dovrebbero essere formati e che essi dovrebbero, comunque, ricevere il rispetto che si deve ad ogni forma di vita anche solo dubbiosamente umana[4]. Indipendentemente dalla questione dei gastruloidi difettivi, la domanda di fondo su questi studi è verso quale progetto ci si sta muovendo. Merita ricordare le riflessioni che sembravano suonare apocalittiche e che si stanno rivelando, invece, profetiche di Francesco Ognibene alla notizia della creazione di embrioni artificiali (“blastoidi”) di topo in Olanda nel 2018. “La sperimentazione sulla vita non conosce limiti – egli scriveva – Non è difficile immaginare infatti che, una volta acquisita sufficiente sicurezza sui modelli animali, si passerà ai test sugli embrioni umani, col prevedibile risultato di mettere in moto un meccanismo biologico del quale non si conosce il possibile esito (…) L’ipotesi del ‘blastoide’ che evolve in ‘umanoide’ non è affatto remota, e svela l’ambizione con la quale viene divelto ogni possibile interrogativo etico: ottenere esseri viventi creati in laboratorio dall’inizio alla fine, forme di vita che sono il parto integrale della scienza, sue opere messe in movimento per venire osservate sotto il microscopio ma che non possono lasciare del tutto certi del fatto che non le si voglia vedere, presto o tardi, anche nel mondo reale, giunte alla conclusione di una gravidanza e fatte nascere, qualunque cosa esse siano”[5].

p. Maurizio Pietro Faggioni, ofm


[1] Stato dell’arte in: Tang X. Y., Wu S., Wang D. et al., «Human organoids in basic research and clinical applications», in Signal Transduction and Targeted Therapy 7 (2022) 168. https://www.nature.com/articles/s41392-022-01024-9

[2] Revisione della letteratura in: De Jongh D., Massey E.K., The VANGUARD consortium et al., «Organoids: a systematic review of ethical issues», in Stem Cell Research and Therapy 13 (2022) 337.

https://stemcellres.biomedcentral.com/articles/10.1186/s13287-022-02950-9

[3] Iltis A. S., Koster G., Reeves E., Matthews K. R. W., «Ethical, legal, regulatory, and policy issues concerning embryoids: a systematic review of the literature», in Stem Cell Research and Therapy 14 (2023) 209. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/37605210/

[4] Cfr. Congregazione della dottrina della Fede, dichiarazione De abortu procurato, 18-11-1974, n. 13: “Anche se ci fosse un dubbio concernente il fatto che il frutto del concepimento sia già una persona umana, è oggettivamente un grave peccato osare di assumere il rischio di un omicidio”. L’argomento del dubbio non è ritenuto da tutti applicabile a questa fattispecie. Cfr. Pereira Daoud A.M., Dondorp W.J., Bredenoord A. L. et al., «Potentiality switches and epistemic uncertainty: the Argument from Potential in times of human embryo-like structures», in Medicine HealthCare and Philosophy 27 (2024) 37–48: “As long as this epistemic uncertainty persists, extending embryo research regulations to research with specific types of hELS [human embryo-like structures] would amount to a form of regulative precaution that as such would require further justification” (abstract).

[5]Ognibene F., «Senza limiti. Prodotti i ‘blastoidi’, tappa verso umanoidi senza padre né madre», in Avvenire 2-5-2018.

https://www.avvenire.it/vita/pagine/creare-una-nuova-forma-di-vita-i-blastoidi

Cfr. Luijkx D, Shankar V, van Blitterswijk C, Giselbrecht S, Vrij E., «From Mice to Men: Generation of Human Blastocyst-Like Structures In Vitro» in Frontiers in Cell and Developmental Biology, 10 (2022) 838356.

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8963787/

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